sabato, Luglio 27Settimanale a cura di Valeria Sorli

Alviero Martini: New York… if you make it there…

“Cristoforo Colombo ha scoperto l’America, Mr. Martini ha riscoperto il mondo!”

Così scriveva Anne Marie Schiro, nel suo prestigioso articolo uscito a febbraio del ’90 sul “New York Times”, dopo una lunga intervista, durante la mia settimana di presentazione della mia nuova collezione di borse geo, a New York.

Ed è vero il detto If you make it there, you make it every where!

Ma ora ero io che dovevo scoprire l’America, continente che avevo già visitato molti anni prima, ma come turista, e comunque nei miei due mesi trascorsi nel 79, coast to coast, altro non feci che ammirare la meravigliosa Grande Mela, il Gran  Canyon , Washington D.C. . tutta la California, comprese le città diventate simboli in vari telefilm, da San Diego a Malibù, Venice, Santa Monica e Newport, poi il Texas, la Florida, Key West e le Everglades, risalendo per Filadelfia, fino a Woodstock,  reduce del successo del festival  musicale che partorì la generazione  Hippie. Eravamo in 4 e non ci facemmo mancare nulla, aerei, macchine e qualunque mezzo per poter sfruttare al massimo i 60 giorni che avevamo deciso di spendere nella Terra sognata, la Grande America, della quale eravamo succubi della loro innovazione ( e oggi no?), seppure noi avessimo talento e genialità da vendere e da esportare, e direi tutt’ora!

Ma nel ’90 la mia vita cambiò repentinamente: L’America mi aveva scoperto, e ora stava a me contraccambiare, conoscendola, come lei mi impose.  Il Paese che ha inventato il consumismo e che dettava legge a tutela del consumatore con eccessi che per fortuna neanche oggi abbiamo ancora preso in prestito. Proprio lei, l’America  che visse il lutto di Kennedy, la successione di un discusso Nixon, Carter  e persino un attore hollywoodiano, Regan, Bush e poco dopo Clinton, epoca nella quale mi trasferii, vissi e  lavorai, proprio a New York. Le regole del mercato erano chiare: Noi ti abbiamo scoperto, ti osanniamo per la tua idea, ma è qui che dovrai passare la maggior parte del tuo tempo, per dar lustro alla tua idea, e soddisfare il nostro mercato.. Nessun contratto, piena libertà, ma questo è un Paese, anzi un Continente che ti dà molto, ma altrettanto chiede. Compreso questo concetto mi dedicai per un paio d’anni a viaggi costanti cambiando spesso alberghi, fino a quando decisi di “mettere su” casa, a New York.  Lavoravo chiaramente nel mio quartier generale a Milano, ma le pubbliche relazioni le svolgevo nella Metropoli americana, parallelamente a viaggi e relazioni in Asia e medio Oriente. In Italia ero un perfetto sconosciuto, nessuno apprezzava le mie borse, fino a quando nel 94 aprii una boutique in Via Montenapoleone, e finalmente il successo arrivò anche in Patria. Dunque è vero che se ce la fai a New York, ce la farai ovunque.  Ma torniamo alla mia scoperta dell’ America e delle sue regole. Trascorsi i primi anni ad invitare le giornaliste nei posti più lussuosi, nell’ultimo ristorante alla moda, possibilmente all’apertura, fino a che mi venne l’idea di voler sovvertire le abitudini, e dunque presi casa sulla Columbus Av.  con la 72ma street, un grattacielo di 65 piani, io abitavo al 45mo, con una vista mozzafiato su Central Park, e dalle mie finestre, vetro da soffitto a pavimento, vedevo dalle due torri al Bronx , e in giornate limpidissime, addirittura potevo ammirare atterraggi e decolli al JFK. I mei “vicini di casa” erano Pat Metheny, Linda Evangelista,  Elton John, e molte altre celebrità della televisione, scrittori, pittori, o semplici famiglie benestanti. Il building aveva tutto incluso: una spa gigantesca con annessa palestra, pareti per free climbing, spazi per squash, in una zona zeppa di ottimi ristoranti, il più grande store della Virgin, non mancava proprio nulla, addirittura al piano stradale, nella strada retrostante, la 73esima, una anziana signora amante di formaggi e ceramiche, aveva aperto una piccola bottega che offriva una selezione di cheese da tutto il mondo, e al tempo stesso adorava teiere, panieri, porta-marmellate, tutto in ceramica decorata, anni 30. Il suo negozio si chiamava infatti “Cheese & Antiuques”. Solo in America questo era concesso…

Decisi di cambiare strategia: basta con i ristoranti, ora inviterò a casa! Non lo fa nessuno a New York, forse potrebbe piacere. Lavoravo a Milano, il giovedì chiamavo il mio ufficio stampa, ma spesso le stesse giornaliste,  dicendo “Tomorrow i will be in town,  would you come for dinner chez moi?”… dapprima tutte rispondevano titubanti, mettendo le mani avanti, chiedendo un “eraly dinner”, intendendo alle 6,30 p.m. perché alle 8 devo andare a teatro, proprio li sotto casa tua, al MET… bugiarde come solo Pinocchio sapeva essere, arrivano alle 6,25, tutte rigide, diffidenti, e potendo non si sarebbero neanche tolte il paltò, se non avessero trovato un pazzo come me, con grembiule da cucina, attaccato ai fornelli, e la prima cosa che facevo era di infilarle in mano una bottiglia di vino rosso con cavatappi… a quel punto posano la loro borsetta, i guanti, il cappottino e si esercitavano a stappare una, poi due, poi tre, poi no le contavamo più, bottiglie di vino italiano, mentre io sfornavo una parmigiana che facevo con le mie mani, e nessun cameriere le serviva, nessuna colf girava per casa, le mandavo via prima che arrivassero per rendere  davvero unica  e singolare quella cena così italiana, dove addirittura è il padrone di casa che cucina (all’epoca non esistevano controlli doganali ferrei e portavo gli ingredienti da Milano, parmigiano e mozzarelle, melanzane e ragù). Il vino lo compravo li, il miglior barolo, dolcetto o amarone, niente bollicine, ero piemontese e dunque si passava subito al rosso!  Il tavolo da pranzo non era apparecchiato, serviva solo per appoggiarci su le varie portate, ci si sedeva sui divani, appoggiando tutto sul coffe table, grande abbastanza per accogliere  8-10 persone per volta, ma  mischiavo gli invitati: un artista, un fotografo, una cantante, una aspirante modella, un business man con signora, al massimo due giornaliste, attento che non fossero “nemiche”, e regolarmente “dimenticavano” il balletto al MET, e la early dinner, la cena delle 6,30, non finiva mai prima delle due di notte, con gli invitati  che avevano abbandonato le scarpe al secondo bicchiere, ed erano ormai seduti per terra con le gambe sotto il tavolo, una leggerissima musica di sottofondo e tanta, tanta conversazione. Quasi sedute terapeutiche, così inattese che la rigidità iniziale si scioglieva rendendo la serata così conviviale, anche perché contrariamente a quello che volevano i miei P.R., io non parlavo mai di lavoro, tantomeno di richieste di editoriali, redazionali, o di piazzare il prodotto nel loro prossimo articolo….cosa che regolarmente facevano e anzi, più generose di quanto pensassi. Sbalordii anche il mio ufficio relazioni, che da quel momento si limitava a mandare ringraziamenti, e tenere vivi i rapporti, ma soprattutto ad informare quando Alviero sarà nuovamente “in town”.

Sono da sempre un sostenitore della conversazione, è la riprova che un buon argomento vale più di una richiesta esplicita… certo oggi non sarebbe più la stessa cosa: immaginate ai giorni d’oggi, l’invito via mail, la conferma con facebook, e la disdetta con WhatsApp… e semmai dovesse formarsi il gruppo, sul tavolo non ci sarebbe posto che per i cellulari, con un costante alzarsi di uno poi l’altro per rispondere ai messaggi!…  questa straordinaria tecnologia ci ha cambiati molto, in peggio. Perdiamo il senso della convivialità per rispondere ad una richiesta di amicizia, tralasciamo una conversazione per vedere il profilo Instagram di un ipotetico follower, rinunciamo a guardarci negli occhi per twittare un pensiero.

Ah, le mie meravigliose cene di New York, come quelle mitiche a Milano, che chiamavano le “Alvierate”, cene per  8, 30, 100, 300, fino a 600 persone, e tutti conversavano, tutti interagivano… immaginate oggi: 8-30-100-300 o 600 (no 600 mai più) telefonini che squillano, suonerie che coprono la musica di sottofondo, o addirittura chi azzarda grinder per vedere di evitare qualcuno che non gli sta troppo a genio, o peggio, alla ricerca dell’ipotetico partner…. Zero in conversazione!

Torniamo però alla mia New York, quella che ho vissuto intensamente dal 1990 al 2005, anno in cui ho lasciato il mio ex marchio, avevo anche chiuso la boutique aperta dolorosamente nel novembre 2001, (ma opzionata e messa in lavorazione già da marzo dello stesso anno) e con la paralisi che l’atto terroristico creò,  tutta l’America  era in ginocchio, New York in particolare, e dunque davanti alla terribile realtà  di una situazione economica disastrosa, non avevo più motivo di restare. Chiusi casa e bottega, una piacevole epoca, tornai in Italia, e conservo  tutt’oggi i ricordi di quella fervente città, che ho amato, mi ha amato, e mi ha dato molto, moltissimo, alla quale sono grato, e rivivo costantemente tutte le esperienze americane, molte quelle belle, tante quelle buffe con gli americani, poche quelle brutte che per abitudine…rimuovo.

Penso alle passeggiate, anzi alle camminate da casa a down town, allo shopping sfrenato sotto il periodo Natalizio, le vetrine fantastiche dei grandi magazzini, l’albero di Natale al Rockefeller Center  con sottostante pista di pattinaggio su ghiaccio, il Village e i suoi ristorantini, il Flat Iron  Building,  Central Park e il cambio dei colori degli alberi con le stagioni,  gli innumerevoli viaggi nei dintorni  della città, come gli Hampotns, long Island, Najak nel Jersey, Fire Island, il Connecticut, la mia zona preferita, West Broadway, a tutti i meravigliosi spettacoli visti nei teatri  intorno a Times Square, la mia adorata Madison Av, dove avevo aperto la boutique tra la 56esima e 57esima strada, dietro a Fao Schwarz, il sogno di tutti i bambini e grandi d’America, le mostre al MO.MA, al Metropolitan, al Guggnheim , al Witney,  le aste benefiche alle quali ho partecipato sempre, ai concerti del Radio City Music Hall, al premio “Time for peace,” ricevuto alla Carnegie Hall, addirittura alcune partecipazioni ai congressi ONU, qualche nottata in discoteche avanguardistiche, le panchine  della West side, il fumo che esce generosamente dai tipici tombini, il ponte di Broadway, la City, l’Empire state Building o il mio preferito, il Crysler, le innumerevoli volte che sono salito sulle torri gemelle, ogni volta che arrivava un ospite nuovo. Una volta portai mia madre da Cuneo nella grande Mela, e il freddo ci costrinse a fermarci per comprare guanti, cappelli, e un doppio cappotto, perché a New York, quando arriva il freddo, si sente davvero, cosi come il caldo d’agosto, irrespirabile…. Come gli sarà venuto in mente agli americani di costruire una città in un luogo dove lo sviluppo è esclusivamente verticale, e gli sbalzi di temperature estreme…. Eppure l’hanno costruita, e ci ho vissuto per 15 anni, felicemente. Imparando molto, insegnando altrettanto, ricevendo e dando senza limiti.

Perché se non hai limiti, New York  è la tua città.  E’ la mia città!

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